Il 29 dicembre 1925 moriva a Milano Anna Kuliscioff. A cent’anni di distanza abbiamo ancora un enorme debito intellettuale verso questa rivoluzionaria capace di incidere profondamente nella storia politica e sociale del nostro Paese e nella cultura europea.
Difficile aggiungere contenuti originali anche a fronte di un anno fitto di iniziative accompagnate dal volume “Oltre il tempo patriarcale” di Fiorenza Taricone corredato di brani antologici e materiale fotografico. Impossibile non pensare all’omonima e attivissima Fondazione, con sede a Milano, che ne promuove incessantemente lo studio attualizzandolo. Eppure, resta la sensazione che non sia mai abbastanza; perché la sua battaglia per la giustizia sociale, per l’emancipazione delle donne, per la dignità del lavoro e delle lavoratrici è ancora una battaglia contemporanea e soprattutto globale. Una lotta urgente che ci riguarda e di cui proprio il fermento umano che da sempre caratterizza la nostra città ha avuto l’onore di essere il palcoscenico privilegiato.
Nata, probabilmente in Crimea, nel 1854 in una famiglia di agiati mercanti ebrei: i Rosenstejn. Non ancora ventenne scelse il cognome Kuliscioff, per sfuggire alle persecuzioni zariste contro i rivoluzionari, ispirandosi al termine russo kuleš, un piatto povero legato alla gente umile. È questa una delle prime scelte dirompenti che fecero della sua vita una catena di simboli di impegno per quelle che Gramsci avrebbe definito classi subalterne.
Una vocazione che sarebbe stata impressa anni più tardi nell’appellativo “dottora dei poveri” in riferimento alla sua professione medica, condotta nei tanti sobborghi di Milano nei quali offriva gratuitamente aiuto ginecologico contribuendo a salvare la vita di centinaia, forse migliaia di donne. Pare che Carlo Collodi, vedendola in aula durante un processo nel 1879 rimase talmente colpito dal suo magnetismo che in lei abbia trovato l’ispirazione per il personaggio della Fata Turchina.
«Come mai – mi dissi – isolare la questione della donna da tanti altri problemi sociali, che hanno tutti origine dall’ingiustizia, che hanno tutti per base il privilegio d’un sesso o d’una classe?». Basterebbe questa domanda, estrapolata dall’apertura di un suo intervento intitolato “Il Monopolio dell’Uomo” tenuto presso il Circolo Filologico Milanese nel 1890, per introdurre il suo incessante impegno, con la vita, col pensiero, ma soprattutto con l’azione concreta.
Prima di lei c’erano state le tante donne del Risorgimento, le patriote che avevano combattuto, curato, scritto, organizzato. Loro che avevano contribuito in modo decisivo alla costruzione dell’Italia unita, furono anche le prime a pagarne il prezzo. Con il Codice Pisanelli del 1865 i loro diritti vennero bloccati: giuridicamente e materialmente. La legge le considerava incapaci, affidate prima al padre e poi al marito. Erano trattate come oggetti, non come persone. In quel mondo, Anna Kuliscioff non si limitò a denunciare l’ingiustizia: decise di cambiarla!
Dopo l’esperienza svizzera, entrò con decisione nella vita politica italiana lavorando nello spazio del socialismo accanto a uomini che stimava, ma senza normalizzare la sua indipendenza. Ebbe una relazione con Andrea Costa, da cui nel 1881 nacque l’amata figlia Andreina, e poi un legame politico-affettivo con Filippo Turati. Scelse di non chiudere la propria vita privata in uno schema borghese: il suo nubilato era parte di quelle pratiche politiche dirompenti, una scelta che parlava di libertà, di priorità pubbliche e di rottura con le convenzioni.
Partecipò alla nascita del Partito Socialista Italiano nel 1892: ne teorizzò le linee e ne sostenne l’organizzazione alimentando il fermento operaio che rese possibili l’avvento dei partiti di massa e l’ingresso del conflitto sociale nel Parlamento. Fu un momento di svolta, una cesura nella storia politica italiana, in un’epoca in cui la presenza delle donne restava per lo più invisibile. Perfino Antonio Labriola, il primo teorico marxista italiano, rimase conquistato dalla sua azione.
Donna di molte vite e di molte lingue, attraverso la “Critica Sociale” da lei co-fondata nel 1891, seppe fare del suo multilinguismo non solo una ricchezza culturale, ma uno strumento per comprendere e dialogare con l’altro, aprendosi a un mondo più ampio del proprio. Fu tra le prime a individuare e denunciare le strutture del patriarcato, smascherandone le architetture sociali e culturali e anticipando l’azione e il pensiero che ritroveremo mezzo secolo dopo nei Gruppi di Difesa della Donna.
Soprattutto, visse la politica non come ambizione personale, ma come missione collettiva: non lottò per sé, ma per le generazioni future, per costruire uno spazio di dignità e di diritti che allora alle donne era ancora negato. La sua è una lezione netta: il cammino dell’emancipazione femminile è costellato di discriminazioni, abusi, sfruttamento e violenza. Non è un passato assorto, ma una sfida sempre pronta a manifestarsi nella scala globale. Il mio invito è quello di approfittare di questo anniversario per farle visita al Cimitero Monumentale, dove riposa insieme a Filippo Turati (Circondante di Levante – Giardino 575): un gesto di memoria e gratitudine.