È il 17 novembre 1974, non una domenica come altre, almeno per quello spazio agricolo che si estende tra Trenno e Figino. Sotto un cielo plumbeo, gruppi di ragazze e ragazzi, famiglie con bambini e reparti scout operano per ore piantumando giovani alberi: piccoli fusti che col tempo avrebbero dato vita a un Bosco molto speciale. Non una festa degli alberi, ma un potente gesto collettivo che segnò l’inizio di una radicale riconfigurazione del paesaggio urbano.

In un fluire di esperienze, spesso sotterranee, è arduo individuare un’origine di quell’iniziativa, ma è possibile segnalare almeno due tappe emblematiche. La sera dell’8 febbraio 1971, in un Piccolo Teatro gremito, il comitato Aria per Milano, promosso da Italia Nostra, aveva convocato un dibattito pubblico sul tema del traffico e degli inquinanti ambientali con interventi, tra gli altri, del presidente della Regione Bassetti e del sindaco Aniasi. Nell’altra tappa del 3 settembre 1973, la sezione milanese di Italia Nostra aveva reso pubblico uno Studio Verde che denunciava la scarsa disponibilità di verde pubblico pro capite e ridefiniva il concetto di costruzione del verde nella metropoli in rapida trasformazione.

A queste tappe, e ad altre non citate per ragioni di spazio, si sovrapposero gli effetti della guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973): l’aumento dei prezzi del petrolio da parte dei paesi arabi e i tagli alla produzione provocarono un forte aumento dei prezzi energetici e misure governative di austerità, tra cui la sospensione del traffico privato la domenica. Il 2 dicembre 1973 Milano sperimentò la sua prima domenica senz’auto: la città fu animata da biciclette, autobus strapieni, pattini, tricicli, veicoli a pedali e perfino carrozze. Quella crisi scosse abitudini consolidate e innescò una piccola rivoluzione di comportamenti e consumi: le domeniche senz’auto, seppure temporanee, segnarono una riconnessione dei cittadini con lo spazio urbano, usato fino a quel momento prevalentemente per scopi lavorativi, e rafforzarono un’attenzione pubblica ai temi del verde e della qualità della vita.

In quella stagione si fece largo il progetto della prima forestazione urbana in Italia. A promuoverlo fu l’avvocato Pier Giuseppe Torrani, presidente della sezione milanese di Italia Nostra e principale ispiratore dell’iniziativa. Su suo impulso, il sindaco Aniasi concesse 35 ettari di area demaniale attorno al rudere della cascina San Romano. La prima progettazione, affidata agli architetti del paesaggio Ugo Ratti, Marco Bacigalupo e Giulio Crespi, privilegiò interventi leggeri e non specialistici, basati su fondali e radure. La direzione, con il compito di coordinare la manodopera volontaria e la promozione pubblica, fu affidata all’agronomo Sergio Pellizzoni, primo direttore del Centro per la Forestazione Urbana (CFU), e alla giornalista Luisa Toeschi, poi presidente della sezione Milano Nord di Italia Nostra.

Il 4 maggio 1974, il Corriere annunciava finalmente la nascita del “bosco del Figino” (sic.). Il vivaio era un elemento cruciale vista l’assenza di strutture specializzate per le specie forestali autoctone. Settemila piante messe a dimora anche grazie all’apporto dell’istituto professionale dell’agricoltura di Minoprio (Cariplo) costituirono la base di un impegno collettivo della durata di nove anni senza oneri per il Comune, poi rinnovati, tra lavoro volontario e progetti scolastici. Come auspicato i cittadini, chiamati dal Gruppo Giovani di Italia Nostra, si assunsero la cura e l’allestimento, trasformando un terreno agricolo marginale in un pioneristico progetto aperto e strutturale di boschificazione urbana.

Inizialmente il progetto incontrò resistenze. Per molti amministratori il verde urbano si identificava con spazi ornamentali, fatti di vialetti e panchine; una parte del mondo sindacale bollò l’iniziativa come “borghese”, sostenendo che l’inquinamento fosse un problema delle fabbriche e non una questione di cura civica; gli agricoltori temevano invece la perdita di terreni coltivabili. Ci furono confronti accesi: il bosco urbano fu da alcuni interpretato come segno di abbandono, gli orti come fonte di degrado. Eppure, quegli scontri non minarono il progetto, ma ne misero a fuoco le ragioni, contribuendo a far emergere una nuova sensibilità collettiva.

Torniamo così a quel 17 novembre 1974, non una domenica come tante – dicevamo – tra quegli scout vi era il giovane Silvio Anderloni, per decenni anima e direttore del Bosco, Civica benemerenza nel 2022 e recentemente entrato in rappresentanza del Comune di Milano nella nuova gestione del Parco Agricolo Sud, sotto il coordinamento di Regione Lombardia.

La storia del Boscoincittà è la storia di energie civiche e volontarie che hanno scelto il tempo lungo e il paesaggio metropolitano, dove un’elaborazione competente ha convinto la politica e messo radici in un momento di forti preoccupazioni globali, riuscendo a diventare patrimonio collettivo. Qui il paesaggio si è sovrapposto al territorio, senza cancellarne il secolare divenire, in un articolato sistema che è diventato strutturale verde urbano e che oggi supera i 120 ettari e i cui costi sono ampiamente recuperati grazie a un modello di costruzione e gestione. Per crescere questa esperienza si è cibata di modelli europei e oggi, a sua volta, parla all’Europa. Il Bosco ci spinge a interrogarci sui laboratori in cui oggi si riflette sui grandi interrogativi del futuro dei Parchi dell’Ovest, con quei criteri di economia civica ed efficacia ecologica dati dal progetto di Italia Nostra.